Famiglia, lavoro e relazioni: cosa rende davvero felici secondo la ricerca di Harvard

Amicizie

L'assenza di socialità ed interessi porterebbe ad un degrado cognitivo-pdspsicologidellosport.it

Lorenzo Fogli

Agosto 9, 2025

Il Global Flourishing Study ha monitorato 200.000 persone in 22 Paesi per 5 anni: salute mentale, relazioni, lavoro e senso di appartenenza contano più del PIL.

La felicità non è un miraggio da rincorrere, ma una condizione reale, raggiungibile e in molti casi destinata ad aumentare con l’età. È quanto emerge dai primi risultati del Global Flourishing Study, un progetto internazionale guidato dagli studiosi Tyler VanderWeele (Harvard) e Byron Johnson (Baylor University), pubblicato su Nature. La ricerca si basa su dati raccolti annualmente tra il 2022 e il 2027, su un campione di 200.000 persone in 22 Paesi, distribuiti su sei continenti.

L’obiettivo dello studio è misurare non solo la felicità, ma la “vita piena” – o human flourishing – attraverso sei ambiti fondamentali: benessere soggettivo, salute fisica e mentale, relazioni strette, significato della vita, carattere personale e stabilità economica. Una fotografia completa, che supera i limiti dei soliti indicatori come PIL, occupazione o aspettativa di vita. I risultati indicano che il benessere non segue necessariamente un andamento decrescente con l’età: anzi, chi ha superato gli 80 anni ottiene in media un punteggio di 7,36 su 10, superiore a quello registrato dai 18-49enni (7,03).

Più felicità con età, legami forti e comunità

Tra i fattori più significativi emersi dall’indagine spiccano tre elementi: la stabilità affettiva, il lavoro e il senso di appartenenza. Le persone sposate riportano una media di benessere superiore (7,34) rispetto a single (6,92), divorziati (6,85) o separati (6,77). E il divario varia in modo consistente tra Paesi: in Israele supera 0,9 punti, mentre in Argentina è quasi inesistente.

Felicità
Sembrerebbe che gli adulti, se coltivati interessi e vita sociale, siano più felici dei giovani-pdspsicologidellosport.it

Anche la partecipazione a funzioni religiose o attività comunitarie mostra un impatto evidente sul benessere percepito. Chi partecipa settimanalmente raggiunge in media 7,67 punti, mentre chi non frequenta mai si ferma a 6,86. Il dato più ampio si registra a Hong Kong, con una differenza di 2,33 punti, mentre in India si attesta appena a 0,15. Secondo i ricercatori, il beneficio non è legato necessariamente alla fede, ma piuttosto al coinvolgimento in una rete stabile di relazioni, supporto e ritualità condivise. Anche i non credenti, sottolineano gli autori, possono trarne vantaggio partecipando con costanza ad altre forme di socialità strutturata.

L’occupazione si conferma un altro elemento cruciale. Gli occupati sono mediamente più soddisfatti dei disoccupati, e lo stesso vale per chi possiede un buon livello di istruzione, con alcune eccezioni geografiche (tra cui Australia e Hong Kong, dove il benessere cresce tra i meno istruiti). Anche il fattore migratorio incide: in media, gli immigrati registrano un punteggio leggermente inferiore (7,02) rispetto ai nativi (7,16), ma con differenze più ampie o trascurabili a seconda del Paese ospitante.

Non solo soldi: il benessere è relazione, scopo e fiducia

Lo studio suggerisce che la ricchezza materiale non garantisce automaticamente una vita piena. In molti Paesi ad alto reddito, i punteggi più alti si concentrano sull’aspetto economico, ma risultano più bassi sul fronte delle relazioni sociali o del senso di scopo nella vita. Al contrario, alcune comunità meno ricche mostrano una maggiore coesione sociale e migliori risultati nella percezione di significato personale.

I ricercatori invitano i governi a ripensare i sistemi di misurazione del benessere, superando le logiche puramente economiche e adottando strumenti più raffinati, capaci di leggere il livello di felicità reale delle persone. «Per orientare politiche pubbliche efficaci – scrivono VanderWeele e Johnson – servono dati affidabili e completi su ciò che conta davvero per i cittadini». Tra le priorità: rafforzare le politiche familiari, le reti sociali e l’educazione al senso di comunità, anche in chiave laica.

Il quadro che emerge, dunque, è meno scontato del previsto: la felicità non è privilegio dei giovani né dei ricchi, ma spesso cresce con l’età, con i legami duraturi e con il radicamento in un contesto umano significativo. Non basta vivere a lungo, serve vivere bene. E il vero benessere, suggerisce lo studio, potrebbe dipendere più dalla qualità delle relazioni che da qualsiasi altro indicatore economico.

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