Gatti e Alzheimer, la scoperta che cambia tutto (e potrebbe aiutare anche noi)

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Miagolii notturni, disorientamento, confusione: il segnale che il tuo gatto sta cambiando - www.pdspsicologidellosport.it

Lorenzo Fogli

Agosto 18, 2025

Una ricerca condotta da studiosi dell’Università di Edimburgo, nel Regno Unito, ha aperto una nuova prospettiva sul legame tra demenza felina e Alzheimer umano. Per la prima volta, è stato documentato che i gatti affetti da sindrome da disfunzione cognitiva presentano un accumulo di beta-amiloide nel cervello, una proteina tossica che interferisce con le sinapsi, ovvero le connessioni tra le cellule cerebrali. Il risultato è un quadro neurologico sorprendentemente simile a quello osservato nei pazienti umani affetti da Alzheimer.

Lo studio, pubblicato sul European Journal of Neuroscience, ha analizzato i cervelli di 25 gatti di età variabile deceduti per cause naturali, tra cui esemplari che in vita avevano mostrato segnali compatibili con demenza geriatrica. Tra i sintomi rilevati nei felini figurano confusione, disturbi del sonno, aumento della vocalizzazione notturna e cambiamenti nel comportamento quotidiano. Fino a oggi, nessuna ricerca aveva dimostrato con questa precisione che anche gli animali domestici potessero sviluppare forme degenerative simili a quelle umane.

Cosa hanno scoperto i ricercatori esaminando i cervelli dei felini

Nel dettaglio, gli scienziati hanno osservato come in alcuni gatti anziani, e in particolare in quelli con sintomi neurologici rilevati già in vita, vi fosse una massiccia presenza di beta-amiloide all’interno delle sinapsi. Si tratta delle stesse strutture che nei malati di Alzheimer risultano compromesse dalla tossicità della proteina, la quale impedisce la trasmissione corretta dei segnali nervosi. La degenerazione sinaptica, sia nell’uomo che nel gatto, è uno degli elementi chiave del progressivo decadimento cognitivo.

Secondo la professoressa Danielle Gunn-Moore, coautrice dello studio, “la demenza felina è un modello naturale perfetto per lo studio dell’Alzheimer umano. Comprendere questa patologia nei gatti può portare benefici reciproci: per i felini, per i loro proprietari e per i pazienti umani affetti da demenza”.

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Questa indagine, oltre ad essere la prima nel suo genere condotta su gatti domestici non modificati geneticamente, segna un importante cambio di paradigma. Fino a oggi, infatti, gli studi erano stati limitati principalmente a roditori da laboratorio, geneticamente predisposti a sviluppare sintomi simili alla demenza, ma non naturalmente soggetti a questo tipo di decadimento neurologico.

La scelta di lavorare su gatti domestici già affetti da sintomi clinici e deceduti per cause naturali ha permesso di validare un legame reale tra comportamento osservato e lesioni cerebrali effettive, offrendo nuovi strumenti per il riconoscimento e la prevenzione della patologia.

Demenza felina: sintomi da non sottovalutare e difficoltà nella diagnosi

Nel 2022, anche l’Università degli Studi di Milano, tramite il dipartimento di Medicina Veterinaria e Scienze Animali, ha avviato un’indagine sulla sindrome da disfunzione cognitiva nei gatti, i cui risultati sono ancora attesi. Secondo il veterinario e docente universitario Giuseppe Borzacchiello, interpellato da Kodami, “la demenza è una condizione frequente nella vecchiaia, ma troppo spesso sottovalutata. I cambiamenti comportamentali vengono attribuiti all’età e non riconosciuti come segnali di una patologia”.

Tra i sintomi più comuni osservati ci sono disorientamento, difficoltà a trovare la lettiera o la ciotola, apprendimento compromesso, irrequietezza, confusione notturna e atteggiamenti apparentemente immotivati. Anche il sonno disturbato e l’aumento del miagolio notturno possono rappresentare segnali da non ignorare.

Attualmente non esiste una cura risolutiva, ma la terapia sintomatica può migliorare la qualità della vita dell’animale, soprattutto se iniziata precocemente. Alcuni farmaci, modifiche ambientali e stimolazioni cognitive possono rallentare il decorso della malattia.

In termini clinici, la diagnosi è spesso complessa: servono esami neurologici specifici, test comportamentali e, idealmente, una valutazione post mortem, come avvenuto nello studio scozzese. Ma la conoscenza di questa patologia nei gatti domestici è destinata a crescere, e la consapevolezza dei proprietari potrà giocare un ruolo fondamentale nella diagnosi precoce.

Questa nuova evidenza scientifica, resa nota dai ricercatori britannici, apre prospettive importanti anche nel campo delle neuroscienze umane. Se i gatti rappresentano davvero un modello efficace per studiare l’Alzheimer, sarà possibile testare terapie e approcci diagnostici in modo più naturale e meno invasivo rispetto agli attuali modelli animali.

Lo scenario che emerge è duplice: da un lato, una maggiore attenzione medica per gli animali anziani, dall’altro un possibile salto di qualità nella comprensione delle malattie neurodegenerative che colpiscono anche l’uomo.

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