Tre fasi silenziose che portano all’isolamento: l’allarme degli esperti su migliaia di adolescenti

Hikikomori

Dal Giappone il disturbo sociale che spaventa famiglie ed esperti: Hikikomori-pdspsicologidellosport.it

Lorenzo Fogli

Agosto 22, 2025

Tre fasi, segnali difficili da leggere e il rischio che scuola e famiglia non riescano a intervenire in tempo.

È un disagio che si muove silenzioso tra i corridoi delle scuole e le stanze dei ragazzi. Ha un nome giapponese, hikikomori, ma parla ormai anche italiano: si stima che a vivere una qualche forma di ritiro sociale siano oltre 200mila adolescenti nel nostro Paese. Matteo Crepaldi, esperto del fenomeno, ne ha descritto dinamiche, segnali e possibili interventi in una lunga intervista che mette a fuoco anche il ruolo della scuola, oggi più che mai centrale nel riconoscere i primi segnali di malessere.

Dalla chiusura sociale all’isolamento totale: le tre fasi dell’hikikomori

La progressione è lenta, ma profonda. Crepaldi identifica tre fasi. Nella prima, i ragazzi cominciano a ritirarsi dalla socialità, a mostrare insofferenza per la scuola, a saltare qualche giorno, a smettere di fare sport o uscire con gli amici. Oggi, questa condizione riguarda tra i 50 e i 70mila giovani.

Problema sociale
Molti ragazzi tendono ad isolarsi. Cosa fare e come aiutarli-pdspsicologidellosport.it

Poi arriva la seconda fase, quella del ritiro scolastico vero e proprio. Il ragazzo smette di andare a scuola. Le giornate si restringono sempre di più tra la camera e lo smartphone. In questa fase spesso si sbaglia approccio: si stacca internet, si minaccia, si pretende un ritorno forzato alla normalità. Ma la pressione peggiora tutto. Il consiglio è strutturare con la scuola un piano didattico personalizzato, che tenga conto della fatica psicologica e delle cause profonde che hanno portato all’isolamento, come bullismo, ansia da prestazione o esaurimento emotivo.

La terza fase è la più grave: il rifiuto totale del contatto umano. Il ragazzo si chiude in stanza, smette di parlare con i genitori, e persino la famiglia viene vissuta come una minaccia, un’altra fonte di ansia. A quel punto, lo spazio d’azione dei genitori si riduce drasticamente.

La scuola può fare la differenza: il problema non è solo in famiglia

Spesso si tende a scaricare tutto sulla famiglia. Eppure è proprio la scuola il primo luogo dove il disagio si manifesta in modo chiaro. I campanelli d’allarme sono presenti, anche se sottili: uno studente che non si alza al cambio dell’ora, che non interagisce all’intervallo, che suda e fatica a rispondere alle interrogazioni. L’insofferenza scolastica è uno dei primi segnali. Aspettare che salti l’intero anno prima di agire è un errore.

Crepaldi è chiaro: la scuola deve formarsi, imparare a riconoscere il fenomeno e diventare più flessibile. Invece spesso si arriva al punto in cui l’unico consiglio dato ai genitori è quello di ritirare il figlio e “fargli fare la scuola da privatista”. Così facendo, si scarica il problema sulla famiglia, senza tentare una reale inclusione o comprensione.

Nel 2025, il fenomeno appare ancora fortemente maschile. Otto genitori su dieci che chiedono aiuto parlano di figli maschi. I casi più gravi, quelli di isolamento totale da dieci o vent’anni, riguardano soprattutto uomini. Nelle fasi iniziali, invece, il disagio sembra essere più equamente distribuito tra ragazzi e ragazze.

I social network e l’uso eccessivo dello smartphone aggravano la situazione. Crepaldi sottolinea come molti studi abbiano confermato una correlazione tra ansia sociale e tecnologia. Più un ragazzo si isola, più aumenta la paura del contatto. E più il digitale diventa rifugio, più alimenta la dipendenza emotiva da un mondo senza conflitti reali. Non a caso, si invoca un’educazione digitale più seria e una maggiore regolamentazione da parte di chi progetta queste piattaforme.

Alla base, c’è una pressione sociale crescente. La società spinge i giovani a realizzarsi troppo in fretta, i social accentuano il confronto costante e la paura di non essere “abbastanza”. In questo vuoto di senso, chi si ritira lo fa spesso perché ha perso la speranza.

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