Chi decide cosa è virale: cosa spinge davvero una notizia a diventare trend

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Il mistero del perché qualcosa diventa virale. - www.pdspsicologidellosport.it

Luca Antonelli

Settembre 1, 2025

Non sempre è il contenuto a contare: tra condivisioni pilotate, tempismo e struttura emotiva, ecco cosa trasforma una notizia in un trend.

Ogni giorno centinaia di titoli si affacciano sulle homepage, nei feed e nei motori di ricerca. Eppure, solo poche notizie riescono a superare la soglia dell’attenzione collettiva, a diventare virali, a trasformarsi in trend. Perché accade? Chi, o cosa, decide quale informazione debba dominare la conversazione pubblica? L’idea che la viralità sia spontanea è, in gran parte, superata. Lo dimostrano le ricerche sul comportamento digitale, i dati di traffico aggregato e l’analisi degli algoritmi. Le notizie che “bucano” l’algoritmo e si moltiplicano nelle chat, nei social e nei motori, seguono logiche precise: non solo contenuto, ma struttura emotiva, tempismo e spesso anche strategie editoriali mirate. In certi casi, è il sistema stesso a creare le condizioni per cui una notizia emerga e altre si perdano, senza lasciare traccia.

Le piattaforme spingono il contenuto giusto al momento giusto

Nel modello di distribuzione digitale attuale, nessuna notizia è davvero libera. Ogni piattaforma – da Google a TikTok, da Facebook a X – applica filtri algoritmici che selezionano cosa far vedere e a chi. A influenzare la scelta non è solo la rilevanza del contenuto, ma anche il comportamento degli utenti: se una notizia viene cliccata, condivisa o commentata nei primi minuti dalla pubblicazione, l’algoritmo la interpreta come interessante e ne amplia la portata. È una dinamica a imbuto: chi entra subito nei flussi giusti guadagna visibilità, chi parte lento rischia di sparire. Il problema? Questo processo premia la velocità, non la profondità. Premia il linguaggio emotivo, non sempre quello informativo.

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Il potere invisibile dietro le notizie virali. – www.pdspsicologidellosport.it

Alcuni editori hanno imparato a “dialogare” con gli algoritmi. Sanno quali parole inserire nei titoli, quali immagini attirano click, quali orari garantiscono una prima ondata utile. In certi casi si usano addirittura strumenti predittivi per stimare l’impatto potenziale di una notizia prima della pubblicazione. Chi lavora sul digitale sa che pubblicare un contenuto efficace non basta: serve un tessuto reattivo, una rete di rilancio, un tempo preciso. E quando tutto coincide – titolo, urgenza, tempismo e target – nasce un trend. O meglio: lo si costruisce.

Non basta avere una buona notizia: serve il contesto giusto per esplodere

Il caso recente di alcune notizie su personaggi noti, incidenti o eventi sportivi lo dimostra chiaramente: non è l’informazione in sé a diventare virale, ma il modo in cui si intreccia al momento sociale, alle emozioni collettive, all’urgenza percepita. Una notizia può rimanere invisibile per ore, poi esplodere a partire da un solo tweet ripreso dal canale giusto. L’attivazione non è casuale. Spesso si innesta su dinamiche di potere, interessi editoriali, automatismi psicologici. In certi casi, persino su strategie orchestrate da agenzie, gruppi o singoli con una rete di rilancio pronta.

Uno studio del MIT del 2024 ha analizzato più di 250 notizie esplose su X e Facebook nel giro di 12 ore. Il 78% di quelle diventate virali aveva una struttura emotiva dominante (paura, indignazione o sorpresa). Solo il 9% conteneva informazioni nuove o approfondimenti unici. Questo non significa che i contenuti di qualità non emergano mai, ma che devono scontrarsi con una soglia sempre più alta di stimolo e reazione. È come se la soglia dell’attenzione collettiva si fosse alzata: solo chi grida – o emoziona, o divide – riesce a superarla.

Chi studia questi fenomeni parla oggi di notizie performative. Non si tratta più solo di raccontare i fatti, ma di farli agire in uno spazio che premia la reazione immediata. Ed è per questo che, alla domanda “chi decide cosa è virale?”, la risposta è multipla: un po’ l’algoritmo, un po’ chi lo conosce bene, un po’ il pubblico stesso che, senza saperlo, alimenta un sistema che lavora sulla soglia emotiva. Il resto rimane sotto il rumore.

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