L’idea di relax si è trasformata: lo dimostrano ricerche psicologiche, dati sul benessere e nuove abitudini digitali.
Per anni il tempo libero è stato raccontato come uno spazio neutro, un contenitore da riempire con attività piacevoli, hobby, riposo. Ma oggi qualcosa è cambiato. Secondo diversi studi condotti tra Europa e Stati Uniti tra il 2022 e il 2025, il tempo libero ha smesso di essere percepito come “tempo vuoto”. È diventato un’estensione della produttività, spesso vissuto con ansia da prestazione. Il tempo libero, cioè, non è più libero: deve avere una funzione, deve servire a qualcosa. Leggere per imparare, correre per restare in forma, viaggiare per arricchirsi. In questo contesto, la psicologia del tempo entra in gioco in modo diverso, e ridefinisce non solo le nostre priorità, ma anche il modo in cui ci relazioniamo con il nostro stesso benessere mentale.
Perché oggi ci sentiamo in colpa anche quando stiamo fermi
La percezione del tempo improduttivo è stata oggetto di una lunga serie di analisi negli ultimi anni. Una ricerca dell’Università di Harvard, pubblicata nel 2024, ha evidenziato che il 64% dei lavoratori under 40 si sente “in colpa” se non utilizza il tempo libero per “fare qualcosa di utile”. Si tratta di un dato significativo, che si riflette nella diffusione di app per la gestione del tempo, timer per la concentrazione, tabelle di performance anche per attività ricreative. I social contribuiscono a rafforzare il fenomeno: la rappresentazione continua di “vite piene”, “domeniche attive”, “weekend produttivi” ha modificato la soglia di ciò che consideriamo tempo ben speso.

La psicologa sociale Christina Ziegler, in una conferenza tenuta a Berlino nel marzo 2025, ha spiegato come questa tendenza abbia effetti visibili sulla salute mentale. Il tempo libero si carica di aspettative, viene pianificato, ottimizzato, cronometrato. Chi non riesce a sfruttarlo “al massimo” sviluppa un senso di fallimento. Il paradosso è evidente: l’unico spazio pensato per ricaricare le energie si trasforma in una fonte di stress sommerso.
Le conseguenze sono reali. Si dorme meno, anche quando si è liberi da impegni. Le vacanze si vivono come un’agenda da riempire. La fruizione dei contenuti, persino di quelli culturali o artistici, diventa funzionale a un riconoscimento, a un post, a un commento. Il tempo libero smette di essere esperienza e diventa prestazione visibile.
Il tempo non usato è tempo perso? La nuova frontiera della psicologia del vuoto
Una linea di ricerca sempre più attiva, in ambito psicologico e neuroscientifico, si sta concentrando sul tempo vuoto. Lo spazio senza stimoli. Quello che non si riempie, che non serve, che rimane lì. È il tempo che si passa in silenzio, a guardare fuori dal finestrino, a camminare senza meta, a pensare senza dover concludere. Questo tipo di tempo, che un tempo era centrale nell’infanzia e nella vita quotidiana, oggi viene percepito come “inutile”. Eppure, secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology nel gennaio 2025, è proprio durante queste pause improduttive che il cervello attiva le aree coinvolte nella creatività spontanea, nella regolazione emotiva e nella formazione di memoria a lungo termine.
Il problema è che queste zone cerebrali vengono sempre meno stimolate. Per molti adulti, il tempo libero viene riempito in automatico da contenuti digitali, attività guidate, stimoli immediati. La soglia dell’attenzione si riduce, il pensiero si frammenta. Si crea una dipendenza psicologica dalla stimolazione costante, che rende insopportabile il vuoto. Non a caso, si parla oggi di “fame di contenuti” anche nei momenti che un tempo erano dedicati al riposo vero.
Alcuni approcci terapeutici stanno provando a invertire la tendenza. Tecniche come il mind wandering guidato, i “minuti bianchi” inseriti tra una sessione di lavoro e l’altra, o le “pause analogiche” (senza dispositivi) stanno ottenendo risultati misurabili. L’obiettivo è restituire dignità al tempo non finalizzato, non solo come pausa, ma come risorsa per la mente. Non è una battaglia contro la produttività, ma un tentativo di salvare la qualità dell’esperienza. Perché — lo sappiamo — non basta avere tempo: bisogna anche saperlo vivere.